La ceramica greca e italiota
di Gabriella Di Rocco
(Si ringrazia per i contenuti qui presentati, tratti dalla rivista Archeomolise, Luglio / Settembre 2012 – N°12 – Anno IV – a cura di Gabriella di Rocco)
Le ceramiche greche e italiote della collezione ‘Giuseppe Barone’ trovano posto nelle teche n. II, III e IV della prima sala del Museo Civico di Baranello e costituiscono un corpus di oltre 120 unità, unico per il Molise. Nello specifico si tratta di esemplari di vasi attici decorati secondo la tecnica a figure nere e a figure rosse e databili tra la fine del VI e la seconda metà del V secolo a.C. (vetrina n.II) e di un cospicuo numero di vasi di ceramica italiota riferibili al IV e al III secolo a.C (vetrine n. III e IV)
In questa sede ci limiteremo a delineare i tratti salienti che riguardano questi materiali, richiamando l’attenzione dei lettori su alcuni dei reperti più significativi della splendida raccolta Barone.
La ceramica attica, molto apprezzata in tutto il mondo antico, è giunta sino a noi perché fece abitualmente parte dei corredi funerari conservatisi nelle necropoli grece, magnogreche ed etrusche; si tratta di una tipologia ceramica di altissimo livello tecnologico ed artistico, mai più eguagliata nella storia dell’antichità.
Il repertorio formale di questa classe ceramica è quanto mai vario e complesso: ci sono le forme cosiddette aperte (crateri, stamnoi, skyphoi, kylikes) e le forme chiuse (anfore, oinochoai, lekhytoi, pelikai, hydriai); l’apparato iconografico è scrupolosamente accurato; ogni singola zona della superficie vascolare è decorata sapientemente dal ceramografo che ad essa riserva uno specifico elemento decorativo; generalmente la scena principale è ritratta nella parte mediana del vaso (spalla, pancia), mentre alle zone superiore ed inferiore (labbro, collo, piede) è destinata la decorazione accessoria.
Leader nella produzione di questo tipo di vasi fu la città di Atene, in Attica. I vasai e i ceramografi ateniesi si ispirarono per le loro creazioni alle botteghe corinzie; fu proprio a Corintio, infatti, che nel secolo VII a.C venne realizzata la particolare tecnica di decorazione della superficie dei vasi di terracotta con piccole figure a silhouette piena, ossia con figure campite con vernice diluita che in cottura scuriva, assumendo un colorazione nera e lucente, liscia e setosa al tatto; gli elementi interni alle figure, come i tratti anatomici o i panneggi delle vesti, erano ottenuti asportando la vernice con una sottilissima punta metallica, mentre il fondo del vaso restava del colore rosso/bruno dell’argilla.
A partire dalla metà circa del VI secolo a.C., i ceramografi ateniesi adottarono tale tecnica a figure nere per decorare i manufatti ceramici, sostituendola, alla fine dello stesso secolo, con quella più evoluta a figure rosse che permise la realizzazione di veri e propri capolavori, per noi tanto più preziosi in quanto la grande pittura greca di età arcaica e classica, di cui quella vascolare costituisce, in un certo senso, un riflesso, è andata persa per sempre.
L’anfora a collo distinto della collezione ‘Giuseppe Barone’ con la raffigurazione di Apollo che suona la lira, databile intorno al 500 a.C., è senza dubbio tra le più particolari dell’intera raccolta. Di non grandi dimensioni, circa 25 cm di altezza, essa è caratterizzata da bocca ad echino e collo molto svasato, corpo espanso nella parte superiore, fortemente rastremato verso il basso.
La scena metopale occupa, come di consueto, il punto di massima espansione del vaso. Sul lato principale (lato A) sono rappresentate tre figure: al centro, di profilo a destra, è Apollo con chitone ed himation, ritratto nell’atto di suonare la lyra, lateralmente due figure femminili, rivolte verso quella centrale, ammantante in un lungo himation, rispettivamente Lato (Latona) e Artemis (Artemide). Anche la decorazione accessoria si inquadra nella tipologia tipica della fine del VI secolo a.C.: sul collo, palmette rivolte alternativamente verso l’alto e verso il basso, collegate tra loro da steli; in basso, al di sotto della scena figurata, un giro di fiori di loto e una raggiera sottostante. Sull’altro lato (lato B), invece, è rappresentata una scena con al centro un oplita in panoplia con elmo, corto mantello e schinieri, il cui busto è completamente nascosto dal grande scudo circolare con episema, sulla destra un arciere dotato di faretra e sulla sinistra un personaggio ammantato.
L’altro esemplare vascolare che vogliamo qui richiamare è una seconda anfora a collo distinto, coeva alla precedente, che ritrae, sul lato principale, un auriga con quadriga e chitone bianco, mentre, sul lato B, due figure: Dionisio sulla destra e una menade sulla sinistra. Gianna Dareggi, la studiosa che all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso studiò per prima questi reperti ceramici, ha proposto di attribuire la realizzazione delle scene di quest’anfora al Pittore delle Linee Rosse, cosi definito per la particolare tecnica di questo ceramografo di utilizzare linee paonazze nelle sue composizioni pittoriche,. Si tratta di un artista attivo tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. espressione della fase tarda della tecnica a figure nere.
Grazie all’enciclopedico lavoro di sir John Davidson Beazley, lo studioso che ha dedicato l’intera vita a studiare e catalogare i vasi attici riuscendo a riconoscere scuole, botteghe e pittori specializzati nella tecnica delle figure nere e delle figure rosse, è possibile, attraverso opportuni confronti, rintracciare la mano o la scuola o il gruppo di appartenenza di un artista pur non conoscendone l’identità; solo in rarissimi casi, infatti, il ceramografo ha lasciato traccia certa di sé apponendo la propria firma sul vaso.
Tra i reperti ceramici a figure nere la raccolta Barone accoglie anche alcune kylikes (coppe). Una di esse è, a nostro avviso, di grande suggestione: si tratta della coppa ad occhioni di tipo calcidese databile al 520 a.C. circa. Inventore di questa tipologia decorativa delle coppe che prevede la realizzazione di due grossi occhi apotropaici posti all’esterno del vaso, fu uno dei grandi maestri delle figure nere, Exekias, artista attivo nella seconda metà del VI secolo a.C. Ottenuti con il compasso, gli occhioni vengono messi in risalto dal sapiente e calibrato uso della policromia: il bianco per la cornea, il rosso-violaceo per l’iride e il nero per la pupilla. Nel nostro caso tra i due occhi il pittore ha posto una quadriga guidata da un auriga in chitone bianco; eccezionale la
resa prospettica e il movimento del cocchio, ottenuti dipingendo i cavalli in torsione, colti proprio nel momento della corsa; nel tondo in terno della coppa trova spazio l’immancabile gorgoneion.
Al Gruppo di Haimon, un gruppo di ceramo grafi operanti intorno al 480 a.C., sono state attribuite una serie di piccole lekythoi (brocchette) funerarie tra cui una con una ricca scena dionisiaca: Dioniso è steso sulla kline, accanto a lui una menade ammantata è seduta e suona una lyra, alle sue spalle un’altra menade ammantata giunge a dorso di mulo. La decorazione accessoria è molto ridotta: tratti verticali e raggiera nella parte bassa del lungo collo svasato, al di sotto della scena figurata
una serie di tre linee orizzontali di cui quella mediana più spessa.
Gli esemplari ceramici della collezione Barone conservati presso il Museo Civico di Baranello sono riferibili, come già anticipato, alla fase tarda della tecnica a figure nere, ossia alla fine del VI secolo a.C., periodo in cui ad Atene gli artisti iniziavano a sperimentare la nuova
tecnica a figure rosse, tecnica che ebbe poi un enorme successo per cui i vasi attici erano estremamente richiesti sui mercati dell’intero bacino del Mediterraneo, sia verso oriente, sulle coste del Mar Nero, che nella lontana valle padana e più ad ovest in Iberia sino allo stretto dei Dardanelli.
Giuseppe Barone
“…come dice Platone: i giovani allevandosi coll’armonia del bello e dell’ordine
acquistano sin da quella età un’avversione alle cose malfatte, anche nel costume,
e si compiacciono delle sole cose belle; quelle avidamente riceveranno nell’animo,
di quelle si nutriranno e per quelle si faranno buoni, belli e decorosi nel vivere…”
Questa nuova tecnica a figure rosse prevede il procedimento inverso rispetto alla precedente tecnica a figure nere:
le figure sono risparmiate dalla stesura della vernice e vengono perciò lasciate nel colore rossiccio dell’argilla, mentre il fondo del vaso è ricoperto da uno strato di vernice nera; i dettagli interni delle figure non sono più incisi, bensì dipinti con la punta di un sottilissimo pennello intinto in argilla diluita. Uno dei più interessanti esemplari di cera – mica a figure rosse della collezione Barone è una splendida anfora di tipo nolano, databile intorno al 470 a.C., ossia ad una fase in cui la nuova tecnica decorativa è già pienamente affermata in Atene e numerosi sono gli artisti ed i maestri che vi si cimentano, realizzando manufatti tra i più pregiati che l’antichità ci abbia tramandato.
L’anfora in questione è stata attribuita ad un pittore della maniera del celeberrimo Pittore di Berlino. Costui è noto agli studiosi per la caratteristica di ritrarre su anfore e, in generale, su vasi di grandi dimensioni, figure isolate che emergono dal fondo nero del vaso che appare privo del tutto, o quasi, della decorazione accessoria. Nel nostro caso, sul lato A dell’anfora, vediamo un giovane ammantato, interpretabile come un lottatore vincitore, vestito con himation e corona, colto nell’atto di salutare gli spettatori mentre tende il braccio destro. Sul lato B una Nike, la vittoria alata, sta planando dinanzi ad un altare, con in mano una phiale (ciotola) ed una oinochoe (brocchetta). A differenza delle figure nere, ancora severe nello stile ed essenziali nei tratti anatomici, la nuova tecnica a figure rosse permetteva al ceramografo di ampliare la gamma di possibilità disegnative e, soprattutto, di essere più verosimile nella resa dei dettagli che animano
le figure stesse, anatomie comprese. Il giovane imberbe ritratto su quest’anfora è colto infatti in tutta la sua espressività: gli occhi, le narici,
le labbra, il padiglione auricolare, i riccioli dei capelli, sono realizzati tutti con estrema cura e raffinatezza. Un’altra anfora, simile nella forma alla precedente, ma databile al 450 a.C. circa, reca, sul lato A, due figure: un uomo anziano con lyra e bastone ed un fanciullo che incede verso destra, mentre, sul lato B, un adulto appoggiato ad un bastone; potrebbe trattarsi di una scena di scuola. In questo caso la resa dei tratti anatomici e quella dei panneggi appare meno accurata della precedente.
Nella collezione Barone non mancano alcuni splendidi crateri, i vasi usati durante il simposio greco, in cui acqua, vino ed aromi venivano mescolati per poi essere versati nelle coppe e degustati nelle lunghe ore di convivio. Il cratere a colonnette (kelebe), attribuito al Pittore di Oreste e datato al 450 a.C. circa, ne è un pregevole esempio. Qui la decorazione accessoria è molto ricca, con fiori di loto e tralci di vite, particolarmente sviluppata sul collo e posta ad incorniciare la metopa che racchiude la scena figurata. Quest’ultima, sul lato A, mostra al centro un fanciullo su podio accompagnato da un suonatore di doppio flauto, alle cui spalle è un altro personaggio appoggiato ad un bastone e, sulla destra, una Vittoria con grandi ali e corona di olivo distesa, pronta ad incoronare il fanciullo; sul lato B sono ritratti tre personaggi maschili nell’atto di incedere verso destra e festeggiare. Il tardo cratere a calice del Gruppo di Polygnoto, risalente al 430-420 a.C., mostra invece, una tipica scena dionisiaca con satiro che insegue una menade retrospiciente.
Una delle più interessanti testimonianze che ci ha lasciato la Magna Grecia è costituita senza dubbio dalla ceramica italiota, una produzione avviata in Puglia e Lucania a partire dalla seconda metà del V secolo a.C., che si afferma particolarmente nel corso del IV secolo a.C. anche in Campania e in Sicilia. Com’è noto, fu il risultato dell’incontro delle tecniche importate dai Greci delle colonie costiere con la volontà di imitazione da parte degli indigeni dell’entroterra; le popolazioni locali certamente recepirono il valore culturale delle immagini riprodotte sui vasi e ne commissionarono la realizzazione agli artisti greci locali: il vaso figurato diventa, infatti, per le aristocrazie indigene, strumento di rappresentanza e, nello stesso tempo, di propaganda politica. La produzione italiota, partendo dai modelli attici, sviluppa pian piano caratteristiche formali e iconografiche proprie, un proprio repertorio con forme e immagini ben differenziate. Possiamo riassumere brevemente in tre grandi aree tale produzione: i grandi vasi con soggetti iconografici complessi, spesso di contenuto mitologico; gli articolati servizi da simposio decorati con rappresentazioni legate al mondo dionisiaco e, infine, i vasi di modeste dimensioni con scene tratte dalla sfera del gineceo e della vita quotidiana.
La collezione Barone ne conserva alcuni magnifici esemplari. L’hydria di produzione apula risalente alla metà del IV secolo a.C. occupa nella raccolta Barone un posto di primo piano: il vaso, alto 37 centimetri, presenta il labbro ribattuto che ricorda prototipi metallici. Una delle particolarità di questi vasi rimane l’aggiunta di colore bianco e giallo all’interno della scena figurata, oltre alla presenza di una fascia di vernice rinforzata attorno alle figure. Nel nostro caso il lato A reca, al centro, una colonna ionica campita di bianco posta sopra un’alta base, a sinistra un giovane rivolto verso il centro che tiene tra le mani un tralcio e un ramoscello, a destra una fanciulla in peplo e recante flabello ed oinochoe; il lato B, sotto l’ansa verticale, reca due palmette con girali.
Certamente degna di nota è anche la grande prochoe apula databile alla seconda metà del IV secolo a.C. caratterizzata da un corpo ovale allungato, un lungo collo con bocca svasata e ansa nastriforme. L’elemento decorativo più evidente è la grande quadriga al galoppo, con i cavalli dipinti in bianco, guidata da auriga con il tipico chitone talare gonfiato dal vento; sul lato B spicca una grande palmetta a ventaglio
con girali. Anche la ceramica italiota di produzione campana è largamente rappresentata a Baranello: skyphoi (bicchieri) con scene di gineceo e menadi danzanti, splendide anfore con anse tortili e scene di compianto funebre, piccole lekythoi (brocchette) e piatti con protomi muliebri dalle varie fogge e acconciature, piatti con grossi pesci.
In conclusione possiamo affermare come la collezione di ceramiche greche e italiote del Museo Civico di Baranello rappresenti un
vero patrimonio per il Molise, un patrimonio in buona parte ancora da studiare, valorizzare e tramandare, proprio come Giuseppe Barone
ebbe a ripetere più volte.
Giuseppe Barone
"…questi musei artistici e industriali (hanno) lo scopo di diffondere lo studio dei prodotti dei vari periodi storici delle nazioni, di aprire la mente all'invenzione e gli occhi al sentimento del bello…”