Gli Aegyptiaca

di Marco Corona

(Si ringrazia per i contenuti qui presentati, tratti dalla rivista Archeomolise, Luglio / Settembre 2012 – N°12 – Anno IV – a cura di Gabriella di Rocco)

La raccolta di Aegyptiaca della collezione Barone è ricca ed interessante e presenta una certa varietà nella tipologia degli oggetti: essa comprende tanto i funeralia quanto oggetti di culto ed amuleti di materiale vario, dall’alabastro alla faïence fino al bronzo. La maggior parte degli elementi rimanda ad un contesto egizio di epoca tarda, compreso fra il VII ed il IV secolo a.C. Data la natura occasionale delle acquisizioni, non siamo in possesso di notizie sulla provenienza dei reperti, sicché è possibile affidarsi solo a mere congetture sulla loro origine, da ricercarsi, plausibilmente, nel mercato antiquario, forse napoletano, del secondo Ottocento.

I vasi canopi

Di grande interesse sono due canopi. Il primo (inv. 162), di piccole dimensioni, è in alabastro: il contenitore è rastremato verso il basso e presenta la spalla arrotondata; la fascia mediana non mostra iscrizioni. Il coperchio è lavorato con una certa cura dei particolari e riproduce le fattezze antropomorfe del genio tutelare Amset: la divinità porta in testa il copricapo nemes, che scende sulla fronte e lascia scoperte le orecchie. Il secondo canopo (inv. 82) è di pregevole fattura ed è stato realizzato anch’esso in alabastro. Questo esemplare, analogo al precedente, reca incisa al centro della parte anteriore un’iscrizione allineata entro sette colonne: all’interno del testo è indicato uno dei figli di Horo, Duamutef, tradizionalmente rappresentato con la testa di sciacallo, in associazione con la dea Neith, invocata all’inizio dell’iscrizione. In contrasto col dato epigrafico, il coperchio raffigura con rude naturalismo (ad esempio nell’asimmetria degli occhi) le fattezze di Amset, sempre coperto dal nemes e provvisto della barba posticcia: l’identità di materiale dei due pezzi non assicura con certezza la pertinenza del coperchio al contenitore né l’effettiva antichità del primo. La comparsa dei canopi è legata allo sviluppo delle pratiche di imbalsamazione: i contenitori, infatti, dovevano accogliere le viscere del defunto asportate prima del bendaggio del corpo e trattate per garantirne la conservazione. I vasi erano presenti nei corredi funerari in numero di quattro, in genere deposti presso il sarcofago o contenuti in un’apposita cassetta divisa in quattro settori, ed erano muniti di un coperchio che, a partire dalla XVIII dinastia fino al Periodo Tolemaico, assunsero la forma dei quattro figli di Horo, ciascuno dei quali proteggeva gli organi custoditi all’interno: Duamutef, lo sciacallo, conservava lo stomaco del defunto; Hapi, il babbuino, era preposto alla difesa dei polmoni; Amset, di aspetto umano, tutelava il fegato; Qebehse nuef, il falco, preservava gli intestini. Questa associazione fra le teste umano-zoomorfe ed i figli di Horo, indicati nelle epigrafi, si protrasse fino al Terzo Periodo Intermedio, allorché cominciò ad essere disattesa, come dimostra il nostro secondo esemplare.
aegyptiaca museo barone

Gli ushabti

Gli ushabti (invv. 812-813, 816) meritano una menzione particolare: essi presentano caratteristiche formali che ne fanno oggetti di grande interesse archeologico ed antiquario. E’ individuabile un primo gruppo di tre statuette in faïence dall’aspetto mummiforme, con la parrucca tripartita sul capo, la barba posticcia sul mento e le mani che spuntano dal sudario ed impugnano zappette, accette e retine per i semi o le pietre; i piedi poggiano su un piccolo pilastro orizzontale. Sul corpo di due statuette corrono le iscrizioni in geroglifico: la prima, disposta in senso verticale lungo la superficie anteriore verde chiaro, è delimitata da un riquadro epigrafico rettangolare inciso e riporta nel preliminare i consueti attributi del defunto ovvero l’Illuminato e l’Osiride, molto comuni nelle iscrizioni degli ushabti, quindi il nome di Ahmose e quello del genitore. Nel secondo esemplare, di colore verde scuro, il testo geroglifico, consumato e in molti punti assai poco leggibile, è disposto orizzontalmente lungo otto linee divise da sottili incisioni: di seguito al nome del defunto, che non è decifrabile in modo chiaro, sembra essere riportata una variante della formula magica per animare gli ushabti contenuta nel sesto capitolo del Libro dei Morti. La terza statuetta, di colore marrone scuro, è anepigrafa nella parte frontale, mentre il pilastrino dorsale ospita una breve iscrizione geroglifica incolonnata non molto chiara. La correttezza dei geroglifici, la lavorazione dettagliata del modellato del corpo e del viso, l’uso della caratteristica invetriatura e la presenza dei pilastrini dorsale e di base sembrerebbero assicurare la genuinità della fattura egizia di questi oggetti e, contemporaneamente, indirizzare verso una datazione al periodo tardo. Dello stesso materiale dovevano essere altri tre ushabti di cui si legge nel vecchio inventario Barone, oggi non più rintracciabili (invv. 811, 814-815).
Altre due statuette (inv. 504) della medesima tipologia sono forgiate in metallo: l’aspetto è analogo agli esemplari precedenti, mentre l’iscrizione geroglifica, identica per entrambe e di buona qualità, è disposta in senso orizzontale lungo otto linee di testo. L’uso del metallo solleva dubbi sull’autenticità: l’ipotesi più plausibile potrebbe essere connessa ad una produzione moderna attraverso calchi da originali. Ad avvalorare la teoria è la presenza sulla medesima base della statuetta bronzea di una figura, forse divina, col volto zoomorfo, un copricapo turrito, mantello e veste lunga, non inquadrabile in alcuno schema statuario antico: essa sembrerebbe frutto dell’egittomania moderna. Gli ushabti (dal verbo wšb, rispondere) sono statuette funerarie modellate in materiali diversi, principalmente legno o pietra, la cui adozione all’interno del corredo funerario risale alla XII dinastia, nel periodo del Medio Regno, e si protrae fino al termine del Periodo Tolemaico. Essi generalmente recano in mano attrezzi per il lavoro agricolo, normalmente zappe ed accette ma anche picconi, reti e ceste di vimini, che utilizzano, secondo la credenza egizia, per lavorare nei campi Iaru al posto del loro padrone, solitamente un nobile: per rianimarli, era necessario recitare la formula del capitolo sesto del Libro dei Morti, graffita o dipinta sul corpo della statuetta. In Italia centro-meridionale gli ushabti apparvero già in epoca preromana (Roma, Capua, Erice), tuttavia in contesti cultuali; la mediazione è attribuibile ai Fenici ed ai Ciprioti. In Egitto la loro presenza nelle tombe dei nobili, inizialmente limitata ad uno o due esemplari, nel Terzo Periodo Intermedio arrivò fino ad un numero di 401 (365 servitori più 36 assistenti, questi ultimi abbigliati con vestiti da viventi e muniti di bastoni e fruste): data la loro produzione – e la vendita nell’ambito dei templi – in serie, in epoca tarda si affermarono l’uso di stampi e l’utilizzo della faïence, un materiale economico e facilmente reperibile in Egitto.
gli ushabti museo di baranello
statuetta bronzea

Lo scarabeo

Di accurata lavorazione è uno scarabeo (inv. 80) in pietra tenera. L’amuleto ritrae l’insetto con le ali richiuse nelle elitre ed il capo incassato nel corpo: è presente un foro passante in senso longitudinale che definisce l’oggetto quale elemento d’ornamento di un monile. L’ovale di base presenta una serie di geroglifici incisi in modo piuttosto preciso interpretabili come Ammon-Ra col canestro magico-decorativo oppure Ammon-Ra (è) (il mio) Signo re. La provenienza potrebbe essere campana, mentre la fabbricazione sembra riferibile al tipo egittizzante egeo di Perachora-Lindo (ca. 750-650 a.C.). Già in epoca predinastica le comunità rurali egizie attribuivano allo scarabeo sacro funzioni medico-magiche: di esse la più importante, in considerazione del comportamento etologico dell’insetto, concerneva la sfera della fecondità femminile (fertilità, parto, salute infantile). La connessione al culto solare (Khepri) e l’accentuazione del valore funerario fu opera del sacerdozio eliopolitano dopo la nascita dello Stato faraonico; Asiatici e Fenici, che diffusero lo scarabeo nel Mediterraneo, intesero la valenza popolare a favore delle loro donne e dei loro bambini, come attestano i contesti di rinvenimento di tali oggetti magici. Lo Scarabeo svolse fuori dell’Egitto sempre una pragmatica funzione protettiva; in epoca imperiale romana esso fu sostituito dalle gemme medico-magiche cosiddette gnostiche (tipo Abraxas).

L’occhio-udjat

Ben conservati due amuleti in forma di occhio-udjat: realizzati in faïence (pasta invetriata molto economica ricavata dalla mescolanza di soda e sabbia quarzifera fusa) che presentano una certa raffinatezza nella lavorazione dei particolari, come il piumaggio del falco, il sopracciglio e l’iride. Questo genere di talismani non è particolarmente conosciuto in Italia, sebbene incontri una buona fortuna presso quei popoli mediterranei (i Fenici) che hanno intrattenuto rapporti con gli Egiziani. Il potere dell’udjat si fondava sulla credenza preistorica, presente anche in Egitto come nel resto del Mediterraneo, dell’ “occhio benefico” che respinge quello “malefico” (o “malocchio”). Nella Valle del Nilo la mitopo iesi sacerdotale la legò alla vicenda del combattimento fra Horo e Seth, in cui il primo perse l’occhio sinistro, poi curato da Thot. Gli Egizi coglievano sempre la valenza pragmatica dell’udjat (= “sanato”), utilizzandolo tanto come rimedio terapeutico (ponendolo sul taglio addominale inferto alla mummia) quanto come protettore dal “malocchio” (disegnandolo sui sarcofagi e sulle navi). La fortuna dell’amuleto presso i Fenici e i Greci, tuttavia, fu determinata da credenze locali preesistenti sul potere positivo/negativo dell’occhio (umano ed animale).

Giuseppe Barone

“…come dice Platone: i giovani allevandosi coll’armonia del bello e dell’ordine
acquistano sin da quella età un’avversione alle cose malfatte, anche nel costume,
e si compiacciono delle sole cose belle; quelle avidamente riceveranno nell’animo,
di quelle si nutriranno e per quelle si faranno buoni, belli e decorosi nel vivere…”

Il falco

Una placchetta in faïence, integra e lavorata con le sembianze di falco, riporta all’attenzione la consuetudine di epoca tarda di non asportare gli organi dei defunti e deporli nei canopi, ma di applicare sulla mummia, con il sostegno di reticelle di rivestimento, alcuni amuleti protettivi. Nel nostro caso, la piastrina rappresenta Qebehsenuef, figlio di Horo e genio tutelare degli intestini.

Statuette bronzee di Osiride

La collezione possiede, inoltre, due figurine osiriache di epoca tarda.
La prima, mal conservata, è di aspetto mummiforme: il dio indossa il copricapo atef, la corona formata da una mitra completata ai lati da due piume di struzzo; sotto il mento è posta la barba posticcia. Le braccia si raccolgono sul petto e le mani, congiunte l’una con l’altra, stringono lo scettro heqa e il flagello nekhekh. Una frattura irregolare si sviluppa poco sotto l’area plantare.
La seconda immagine rappresenta il dio, sempre in aspetto mummiforme, con la barba posticcia e la corona bianca hedjet, simbolo del dominio sull’Alto Egitto, munita di ureo, il cobra, simbolo sacro della regalità faraonica; le braccia spuntano dal sudario e le mani sono raccolte poco sotto il petto, la destra sopra la sinistra, e stringono lo scettro was.
Mentre la prima statuetta presenta un tipo iconografico noto e ben attestato nella produzione bronzistica dell’artigianato egizio, la seconda è meno consueta, in quanto la postura del soggetto e la presenza dello scettro was generalmente rimandano ad un’altra divinità mummiforme, cioè Ptah.

Il culto di Osiride assunse particolare importanza nel mondo egizio a partire dal Primo Periodo Intermedio: la leggenda della morte e della rinascita ed il conseguente ruolo di signore dell’Oltretomba, accordarono alla sua figura un ampio consenso, soprattutto in epoca tarda. Secondo il mito Osiride ottenne anche il governo di tutto l’Egitto e ne fu il primo sovrano. Nelle due rappresentazioni il dio è ritratto con i simboli tipici del potere, quali il flagello e lo scettro, le corone atef ed hedjet; nel copricapo atef spiccano poi le piume di struzzo, che indicano la funzione di Osiride di giudice supremo dell’Aldilà. Il dio presenta poi la barba posticcia ricurva, emblema del potere divino, in opposizione alla barba dritta, che invece simboleggia il potere umano.

Statuetta di Iside-Fortuna-Demetra

Fra i bronzi compare anche una piccola statua di Iside rappresentata con i tratti distintivi della Fortuna romana (inv. 545). La divinità veste una tunica con scollo a V e maniche corte fino al gomito, mentre un himation le scende dalla spalla sinistra e ricade panneggiato davanti e, particolarmente, dietro. I tratti del viso sono piuttosto sommari, i capelli sono spartiti sulla fronte e raccolti dietro in un nodo basso sulla nuca, da cui escono due riccioli che scendono sulla spalla destra; la testa, cinta da un diadema, è coronata dal kalathos, prerogativa di Demetra. Nelle mani, poi, la dea reca gli attributi tipici del remo, nella destra, e della cornucopia, nella sinistra, quali emblemi del dominio sul caso. La fattura del bronzetto rimanda al periodo imperiale, forse alla fine del sec. I d.C., ed all’ambito campano. La rappresentazione di Iside-Fortuna-Demetra risente di quel sincretismo che in epoca romana caratterizzò la rappresentazione di molti dei egizi: mentre la romana Tyche/Fortuna riproduce la Sorte cieca, Iside, dea materna e protettiva, incarna la Sorte previdente che è in grado di piegare il Fato al suo volere, anzi lo domina, come recitano molte sue aretologie.

Scopri Le sale del Museo Civico

Giuseppe Barone

"…questi musei artistici e industriali (hanno) lo scopo di diffondere lo studio dei prodotti dei vari periodi storici delle nazioni, di aprire la mente all'invenzione e gli occhi al sentimento del bello…”

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